Tiziano Terzani non era nè cattolico, nè cristiano. Gran parte della sua vita ha viaggiato, affascinato dall’Oriente. Qui, in molte occasioni, si è imbattuto nei missionari, e li ha raccontati.
Riportiamo il suo racconto riguardo alla missione di Kengtung, presente in Un indovino mi disse:
Terzani, come pure suo figlio Folco, conobbe anche Madre Teresa di Calcutta e la raccontò sul Corriere della Sera, dopo averla seguita per due settimane, nel 1996:
Avevo appena spento il registratore e la stavo ringraziando per il tempo che mi aveva dedicato, quando lei, guardandomi fissa coi suoi occhi azzurri arrossati dall’età, m’ha chiesto: «Ma perché tutte queste domande?». «Perché voglio scrivere di lei, Madre». «Non scriva di me. Scriva di Lui…», ha detto alzando gli occhi al cielo. Poi s’è fermata, ha preso le mie mani nelle sue grandi, tozze e già un po’ deformi e, come volesse confidarmi un gran segreto, ha continuato «…anzi la smetta di scrivere e vada a lavorare in uno dei nostri centri… vada a lavorare un po’ nella casa dei morenti». Madre Teresa era tutta lì. (…)
Casa per i derelitti moribondi
Ho voluto farmi una mia idea della sua opera e, sapendo che per capire Madre Teresa bisogna capire Kaligath, è da lì che sono partito per rifare a grandi tappe il suo straordinario cammino. Già alla porta uno potrebbe bloccarsi disgustato. «Casa per i derelitti moribondi» dice un cartello sbiadito sulla porta. (…) Kaligath è nella periferia Sud di Calcutta, è una città di per sé disperante e tragica che a volte sembra essere stata messa da Dio sulla faccia della Terra per provare che Lui non esiste. (…) È qui che nel 1952 Madre Teresa, lasciato l’ordine di Loreto con cui era arrivata in India già nel 1928, si mise a prendersi cura di quei disgraziati che, abbandonati da tutti venivano lasciati a morire per strada. (…)
Il miracolo di Calcutta
«Una volta mi capitò di prendere un uomo coperto di vermi — mi racconta —. Mi ci vollero delle ore per lavarlo e togliergli uno ad uno tutti i vermi dalla carne. Alla fine disse “Son vissuto come un animale per le strade, ma ora muoio come un angelo” e morendo mi fece un bellissimo sorriso. Tutto qui. Questo è il nostro lavoro: amore in azione. Semplice». (…)
E non è un «miracolo» che questa donna che cominciò la sua missione con cinque rupie in tasca abbia messo in piedi un impero con quasi 600 case in 122 Paesi del mondo? Non è un miracolo che abbia reclutato un esercito di piu’ di 4.000 suore e monaci e che gestisca questa «multinazionale» senza computers da un ufficetto al primo piano della Casa Madre dove, secondo la regola di povertà della congregazione non c’è una radio, un televisore, non un apparecchio dell’aria condizionata, né un ventilatore, ma solo due vecchie macchine da scrivere a mano?
«Una sfida al mondo moderno, Madre? Come la scelta di dare più importanza all’amore che alle medicine? Alle preghiere invece che agli antidolorifici?», le ho chiesto. «Sì, non siamo delle infermiere, non siamo delle assistenti sociali, siamo delle suore. E i nostri centri non sono degli ospedali in cui la gente viene curata, sono case in cui la gente che nessuno vuole, viene amata».
L’aborto
Parliamo d’aborto e del fatto che Madre Teresa l’ha definito «la più grande minaccia alla pace del mondo di oggi». «…è il male, il male. L’aborto è il male», mi interrompe. «Se una madre è capace di uccidere il proprio figlio che cosa impedisce a noi di scannarci l’uno con l’altro? Niente!».
«Ma non le pare che in un Paese come l’India il problema della crescita di popolazione è una delle cause della povertà e della sofferenza che lei cerca di alleviare?» insisto. Madre Teresa non sente «ragione».
Dice che la vita è sacra, che non tocca a noi decidere e che una coppia sposata può ricorrere, se non vuole avere figli, ai metodi «naturali» di pianificazione familiare. Quanto alla povertà la sua spiegazione mi pare sul momento più convincente di quella di tanti economisti ed esperti di sviluppo: «Dio ha creato noi e noi abbiamo creato la povertà. Il problema si risolverà solo quando noi avremo rinunciato alla nostra ingordigia».