Tra i martiri più conosciuti e documentati vi è quello della giovane Vibia Perpetua, messa a morte un giorno di marzo del 203 d. C nell’anfiteatro di Cartagine. A lei e ai suoi quattro amici era stato chiesto di sacrificare all’imperatore.
Il rifiuto costò la damnatio ad bestias. Dal diario di Perpetua apprendiamo le sue angosce, le sue visioni, i suoi incontri con il padre e con i familiari. Fu vestita prima da sacerdotessa pagana, poi, per spettacolarizzare ulteriormente la sua morte, fu avvolta in una rete trasparente perché il suo corpo fosse umiliato, come si faceva con le prostituite. Morì, in un giorno che abbiamo dimenticato, ma che rimane scolpito nel cielo.
Oggi possiamo vedere che Perpetua non è una storia passata. Che ancora oggi la forza dei deboli confonde la superbia dei forti. Ancora oggi Dio agisce nella storia. Asia Bibi è una donna del popolo, come Perpetua, di circa 40 anni, pakistana, che per la sua fede vive, oggi, in una cella, accusata falsamente di blasfemia. Che sente sulla sua pelle l’odio di tanti connazionali, che vorrebbero farla a pezzi con le loro mani. Che nella sua cella, con quell’odio sulla pelle, seguita a vivere la sua fede, e a redigere, direbbe Ungaretti, “lettere piene d’amore”. Due anni fa, tra le altre cose, scriveva: “Dio sa che è una sentenza ingiusta e che il mio unico delitto, in questo mio grande Paese che amo tanto, è di essere cattolica. Non so se queste parole usciranno da questa prigione. Se il Signore misericordioso vuole che ciò avvenga, chiedo di pregare per me e intercedere presso il presidente del mio bellissimo Paese affinché io possa recuperare la libertà e tornare dalla mia famiglia che mi manca tanto. Sono sposata con un uomo buono che si chiama Ashiq Masih. Abbiamo cinque figli, benedizione del cielo: un maschio, Imran, e quattro ragazze, Nasima, Isha, Sidra e la piccola Isham. Voglio soltanto tornare da loro, vedere il loro sorriso e riportare la serenità. Stanno soffrendo a causa mia, perché sanno che sono in prigione senza giustizia. E temono per la mia vita”.
Come Perpetua, come Asia Bibi, c’è anche Meriam, una donna nera sudanese, incinta, condannata a morte per la fede nel gennaio 2014. Durante la galera, le pressioni affinché si convertisse all’Islam, e la sua decisione di non abiurare, di resistere. Perché, gli hanno chiesto i giornalisti, dopo la sua liberazione, avvenuta grazie alle pressioni internazionali? “Non sono l’unica a soffrire per questo problema – ha risposto Meriam- in Sudan ci sono moltissime altre Meriam, e così pure nel mondo”. E alla domanda: “Credeva che l’avrebbero uccisa?”, la risposta sconcertante: “Fede significa vita. Se non si ha fede, non si è vivi” (Repubblica, 19/9/2014).
Non c’è nulla da fare, Cristo ha scelto la croce, per sé, e per i suoi. Lo aveva detto 2000 anni fa, e il fatto che la storia si ripeta, stupisce fino a un certo punto: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”. Ma nello stesso discorso, aggiunge: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla…”. Con Lui, Perpetua, Asia Bibi, Meriam, possono sfidare il terrore, l’odio degli uomini, la morte. Senza odio. Con una serenità miracolosa, che lo spettatore può vedere, non comprendere.